Bellunoradici.net è il socialnetwork dell’Associazione Bellunesi nel Mondo che ha l’obiettivo di coinvolgere i bellunesi, dalla prima alla quinta generazione, residenti al di fuori della provincia di Belluno (Italia o estero). La community di questo socialnetwork, 100% bellunese, sta per raggiungere i 1000 iscritti. Tra questi Giulia Gasparet. Questa la sua storia.
«Mi chiamo Giulia Gasparet. Ho 27 anni e sono nata a Johannesburg, in Sudafrica. I miei genitori sono discendenti di bellunesi. Mio nonno era infatti originario di Pez, una frazione di Cesiomaggiore. Fin da piccola con i miei genitori e i miei nonni ho sempre parlato in italiano; ho iniziato a imparare l’inglese dall’asilo in su. Durante il mio percorso scolastico ho scelto di studiare la lingua italiana e sono sempre stata orgogliosa delle mie radici italiane. Quando ho finito la scuola dell’obbligo ho continuato a studiare Interior Architecture & Design presso l’Università di Johannesburg. Dopo essermi laureata ho deciso di andare in vacanza a Londra e la mia vacanza si è trasformata in qualcosa di permanente.
Perché proprio Londra?
Sono venuta a Londra per una vacanza di tre mesi e durante quel periodo sono riuscita a trovare uno stage e dopo mi è stato offerto un lavoro permanente. Mi è piaciuta molto la vita di Londra perché la città è completamente diversa dal Sudafrica: ad esempio mi piace molto camminare ovunque, ma a Johannesburg non è possibile a causa del forte tasso di criminalità. Londra è anche una città divertente, con molte cose da fare e da amare.
Ti piacerebbe un giorno venire a vivere in Italia? A Belluno?
Amo l’Italia e la sua cultura. È sempre stata parte di me, anche se non sono nata nel Belpaese. Ho ancora parenti a Belluno e spesso vado a trovarli. Sì, ho pensato di trasferirmi a Belluno e se si presentasse l’occasione prenderei sicuramente in considerazione il ritorno in terra dolomitica.
Perché hai deciso di costituire la Famiglia Bellunese in Uk?
In Sud Africa ho fatto parte dell’Associazione dei veneti in Sud Africa (ADVISA) e della Famiglia Bellunese di Johannesburg. Da sempre quindi ho partecipato attivamente alle iniziativa di comunità di italiani. Perché una Famiglia di Bellunesi in UK? A Londra ci sono molti italiani, ma non esiste un circolo o un’associazione di Bellunesi. Così ho deciso di avviare la Famiglia bellunese UK nella speranza di poter promuovere la nostra cultura e il nostro patrimonio delle Dolomiti a Londra. Per contattare alcuni dei bellunesi residenti a Londra (che ho incontrato attraverso Bellunoradici.net) ho deciso di iniziare in piccolo e organizzare un pranzo un pomeriggio per dare a tutti l’opportunità di conoscerci. Man mano che il numero di persone crescerà spero di iniziare a organizzare eventi e attività più grandi, più in linea con la provincia di Belluno e la sua cultura».
Didascalia: (giulia_gasparet) Un primo piano di Giulia Gasparet
241. Storie di emigranti bellunesi. Antonio Fistarol
Uno dei principali obiettivi dell’Associazione Bellunesi nel Mondo è quello di preservare la storia dell’emigrazione della provincia di Belluno. Per questo motivo si stanno raccogliendo il maggior numero di testimonianze riferite ai flussi migratori del nostro territorio. Questa è la storia di Antonio Fistarol.
«In Belgio ci sono andato per avventura. A quel tempo – era il giugno 1947 e non avevo nemmeno vent’anni – vivevo in città a Belluno e imparavo a fare il calzolaio. Con un amico, guardando sui muri abbiamo visto che avevano affisso dei manifesti in cui chiedevano di andare a lavorare in miniera e promettevano un sacco di cose. Qui c’era miseria e perciò abbiamo deciso di andare. Tanto più che a quel tempo non eravamo nemmeno sicuri che al di là delle nostre montagne ci fosse qualcosa. Ci sembrava un’avventura. Siamo partiti tramite la Camera del lavoro di Belluno. Era di domenica, ad accompagnarci c’era un cadorino un po’ più anziano di noi, ma nemmeno lui era troppo esperto. A Padova, aveva guardato gli orari degli arrivi anziché quelli delle partenze e così ci siamo trovati a correre da un binario all’altro. Il treno non aveva carrozze normali, erano carrozze per le merci. Abbiamo viaggiato di notte, con un po’ di paglia per terra. A Milano ci hanno sistemati alla stazione Centrale. Sotto i binari c’erano degli alloggiamenti con letti a castello. Dovevamo aspettare la visita medica. Non sono arrivati subito, siamo rimasti più di una settimana in attesa, con la paura che ci scartassero, invece… i medici ci hanno detto: «Oh, che atleti, e vanno a lavorare in miniera…». Mi hanno perfino chiesto se sapevo correre in bicicletta. Siamo partiti alla sera su un treno. È passata una persona, ci ha guardati e ha detto: «Questi due non li mando a… – non ricordo che nome ha detto –, lì le miniere sono vecchie e pericolose, c’è la polvere e sono malsane. Li mando dove ci sono le miniere moderne» e siamo finiti nel Limburgo, ai confini con l’Olanda, era un bel posto. Abitavamo in una cantina, così la chiamavano. C’erano la mensa, il bar e le casette dove eravamo ospitati.Il primo giorno non avevo nessuna idea di come fosse la miniera. Non se ne parlava nemmeno e nessuno sapeva cosa aspettarsi. Siamo scesi fino a 700 metri dentro a un ascensore grandissimo, nel quale caricavano anche i carrelli, tutti insieme, pigiati. Una volta arrivati, qualcuno ci ha condotti dentro il filone, ci ha messo la pala in mano e un demolitore e così è cominciata. Dentro i cunicoli bisognava strisciare carponi e portarsi appresso il motopicco con un rotolo di gomma per l’aria compressa.Le uniche parole di tedesco che conoscevo erano: “wohin gehst du”, che significa “dove vai”. Ricordo che mentre camminavo nel cunicolo ho sentito chiamare: «Italienisch, wohin gehst du?». Era un tedesco. Lì, infatti, c’erano i prigionieri tedeschi che lavoravano. Si riconoscevano perché la loro lampada aveva un cerchio rosso. Quella dei prigionieri politici, invece, aveva un cerchio blu. Abbiamo cominciato a cavare il carbone con il motopicco e con la pala lo facevamo scivolare nel nastro che lo portava fuori dalla taglia. Vicino a me c’era uno più vecchio, uno che può essere definito un “cattivo maestro”: faceva un buchetto nel carbone, si rannicchiava lì, riparato dall’aria, e diceva: «Basta, basta, che cosa fai? Basta! Abbiamo guadagnato i soldi per noi e anche per il padrone». Poi, però, arrivava il capo arrabbiato, perché nella taglia ognuno aveva un pezzo da finire, segnato col gesso su un sostegno dell’armatura. Quando passava il capo il filone doveva essere vuoto completamente. Si levava il carbone e poi si doveva armare il soffitto, altrimenti crollava. Dopodiché misuravano e ti pagavano in base ai metri cubi di carbone che avevi asportato. Ricordo anche che questo collega più anziano diceva spesso: «L’Italia ci ha venduti per un sacco di carbone», ma io non lo sapevo ancora che c’era stato questo accordo tra il nostro Paese e il Belgio. Non tutti, comunque, ci rimanevano in miniera. C’era chi aveva paura e quelli che non volevano più lavorare li mettevano addirittura in carcere, perché avevano rotto il contratto. Ricordo uno di Nogarè che è stato tre mesi in prigione, ti punivano così. Io, però, a spalare carbone sono rimato poco. Mi hanno spostato nel turno di notte, a disarmare quello che era armato in modo da far spazio alle macchine che venivano posizionate nei punti in cui era stato levato il materiale. Ma di incidenti ce n’erano, altroché. A me non è capitato niente, ma dicevano che ogni tanto qualcuno moriva anche lì, era un mestiere pericoloso. Sono rimasto cinque anni. Poi ho fatto il militare e mi sono trasferito in Inghilterra, a fare un lavoraccio nei laminatoi. Per partire dovevo avere il passaporto e un certificato penale con la dichiarazione del parroco. Era il ‘55, ma questi laminatoi erano antichi, di fine ‘800. I rulli per schiacciare il ferro funzionavano ancora con le macchine a vapore. Dopo tre o quattro anni me ne sono andato via, perché quel lavoro era davvero troppo pesante, e mi sono trasferito in Svizzera, a Zugo, a lavorare in una fabbrica di elettrodomestici.Degli anni all’estero ricordo che i rapporti tra noi italiani erano buoni, eravamo tutti amici e ci aiutavamo, ma di fatto eravamo integrati solo tra noi, mentre con la gente del luogo di amicizia ne abbiamo fatta poca».